Una di queste sere, una di quelle dove tiro tardi dopo una giornata di lavoro, scorro distrattamente la newsfeed di Facebook, quando leggo un post di Giovanni Benvenuti (ottimo e giovane sax tenore e soprano). "Ho appena saputo che Gianni Lenoci, non solo uno dei musicisti più profondi coi quali ho avuto il privilegio di suonare e registrare ma anche una persona meravigliosa e di rara gentilezza, non ce l'ha fatta. Ci lascia un pianista straordinario e dalla personalità unica." Da lì in poi sulla newsfeed piovono una quantità di testimonianze e memorie comuni. Data 30 settembre 2019. Vado su Wiki per farmi un'idea, nonostante avessi Gianni Lenoci tra gli amici di Facebook. Leggo. Musicista classe '63 con fior di collaborazioni, tra cui Rava, Grossman, ha studiato con Mal Waldron e Paul Bley, etc. "Forse mi sono perso qualcosa" penso.
Sento al telefono Francesco Cusa (batterista jazz, compositore, sperimentatore, musicista, scrittore, critico cinematografico di rara sensibilità in ognuna delle discipline in cui si applica). Gianni e lui hanno suonato spesso insieme. Nell'intervista che Musica Jazz gli ha dedicato a settembre Francesco aveva parlato dei suoi due gruppi (FCTrio, ovvero Gianni Lenoci, Ferdinando Romano e Giovanni Benvenuti, e FC & the Assassins, composto da Valerio Sturba, Giovanni Benvenuti e Ferdinando Romano) affermando che per lui è molto importante vivere i suoi progetti (e le sue discrasie) con persone fidate e amici veri. C'era affetto, stima profonda, un sentire comune tra i due. Gli faccio qualche domanda. Francesco accelera l'eloquio per coprire lo sconquasso dei sentimenti, quasi non avesse ancora messo a fuoco. Mi domanda se ho ascoltato qualcosa di Gianni. La mia ignoranza mi protegge come al solito. Consiglia Wet Cats.
Prima di ascoltare cerco qualche recensione. Su Musica Jazz trattano la materia con rispetto, ma senza entusiasmo. Su All About Jazz si parla de "l'incanto di musica complessa, ma tutt'altro che difficile". Ho ancora qualche curiosità. Mando qualche messaggio a Francesco per capire meglio. Lui mi chiama. Wet Cats è un'unica suite di 51 minuti e mezzo, registrata a Monopoli nel 2015. Il titolo lo ha coniato Gianni Lenoci. Nessuna preparazione prima di incidere. Nessun obiettivo. Si tratta di composizione istantanea. "Dopo che vi siete detti?" gli chiedo. "Siamo andati a mangiare una pizza e abbiamo cazzeggiato." Restiamo un attimo in silenzio. Ho imparato che il silenzio serve a disseppellire. "Dovevamo fare un progetto suonando standard.." Aggiunge. "A ricordarlo ora mi viene una rabbia.. Ma come fai a pensare che ti lasci con un ciao e poi non ti rivedi più..." Riattacca a parlare veloce. Mi dice che si è reso conto per caso che Wet Cats è del 2015. Pensava di averlo registrato lo scorso anno, scherzi del cervello. Poi mi parla di Marco Guzzi, un poeta e filosofo che ha messo Nietzsche al centro della sua opera e del proprio pensiero. "Si somigliavano lui e Gianni.. Sia come carattere che fisicamente.." Riattacco. Mi metto a guardare 2 ore di lezione di Marco Guzzi Su Cristo e Anticristo in Nietzsche. Formidabile, limpido, cristallino. Afferma che l'archetipo, per quanto desideri abbatterlo, comunque ingaggia con chi lo affronti un tale duello che, pur abbattuto diviene parte di te. Si odia e si ama solo quanto è importante, il resto inevitabilmente lo si perde.
Wet Cats. tutto è iniziato da lì. Anzi, no, è cominciato su Facebook, con la morte di Gianni Lenoci e con la mia proverbiale ignoranza. Poi ci si è infilato Nietzsche e le moto Guzzi, associazione di idee che avevo usato al telefono per trattenere a mente il nome del poeta e filosofo a me sconosciuto. Gatti bagnati. I gatti detestano l'acqua, eppure ne sono attratti. Il mio gatto Berlinguer , ad esempio, lo trovo sovente nel lavandino che prova a lappare un filo liquido colante dal rubinetto. Apro Spotify, La piattaforma online riporta come data del progetto il 2017. Forse aveva ragione Francesco, forse non era stato uno scherzo della mente a fargli pensare che la registrazione fosse recente. 51'36''. Il tempo resta a scandire l'effimero. L'unità di misura più vana presa a misura del reale. Bisogna essere pazzi, davvero pazzi.
Inizio l'ascolto. Conosco lo stile di Francesco Cusa. Mi aspetto il suo modo di suonare ricco di divagazioni, strumenti estemporanei, percussioni di passaggio, ma Francesco comincia la suite con un preciso, cristallino lavorio sui piatti. E' il modo che ha scelto per dialogare con le note alte di Lenoci. Non una giustapposizione di suoni, ma il preciso scalpellio dell'artista per estrarre bellezza. Il pianoforte adesso diviene ritmico, inquietante. Francesco è duale. Ha un proprio percorso, una propria idea ma abbraccia anche quella dell'altro. E' come se sentissi la guida monade di Lenoci e il dualismo di Cusa. Reiterano delle idee, trattengono palla in attesa che l'uno o l'altro si smarchi. Avviene sempre. A volte come un tracciante giunge il passaggio, altre è un semplice farsi da parte perché il compagno prenda la guida del fraseggio. Altre volte ancora suonano all'unisono la stessa sensibilità, ma frasi diverse, raccordandosi a istinto, lasciando dialogare culture simili.
Mi torna in mente una frase di Francesco: "Gianni aveva una cultura musicale pazzesca. Catalogava, conosceva, ascoltava ... Forse solo Stefano Zenni arriva al suo livello.." La mia ignoranza mi protegge sempre. Non lascia che riconosca le influenze, consentendomi di "sentire" solo la musica, senza che l'emozione possa essere mediata da lucida analisi. La definirei la fortuna dell'analfabeta che voglia leggere Tolstoj. Rammento la cena a seguito della presentazione del mio romanzo Chiedi a Coltrane. Ero con Francesco Cusa, Stefano Zenni, Alessandro Panatteri, altro fine musicista che dirige la Alexander's Ragtime Band e l'amico scrittore Paolo Vanacore. Tornai a casa pensando sinceramente che nemmeno se mi fossi reincarnato dieci volte avrei potuto trattenere quella sapienza. Molti hanno condiviso post su Lenoci nei giorni a seguire, componendo sostanzialmente un coro che ha intonato l'ammissione dei peccati. Il più grande? Non averlo compreso fino in fondo. Si dice sempre così.
Intorno al ventesimo minuto della suite Francesco e Gianni si trasferiscono dall'inconscio alle stanze contigue della lieve nostalgia, quasi il riaffiorare a quota periscopica delle loro sensibilità. Avverto il tempo che scorre, memorie care. Le memorie dei vivi che immaginano di perdere tutto, persino la vita stessa, un annientamento impossibile da esprimere a parole, qualcosa che solo la musica o la pittura possono, abitando più della narrazione le stanze dell'inconscio. Alla letteratura mancano, invece, i vocaboli, le sillabe sono mattoni mai liberi di costruire le infinite combinazioni, non possono avventurarsi verso la ricerca dell'ignoto che puntualmente riprende già dal venticinquesimo minuto.
Ripenso alla telefonata. Francesco aveva indugiato prima di dirmi: "Sai è stata una roba tipo, Hey man andiamo a suonare! Abbiamo cercato il bello che potevamo e poi l'abbiamo lasciato lì, nel senso che ognuno ci vede quello che vuole.." Intorno al trentunesimo minuto la musica si spegne. Restano dei suoni metallici a scandire qualcosa di ancestrale, poche note di Lenoci. Probabilmente occorre sempre passare dall'infanzia per capirci qualcosa o dal rumore del mare. L'ascolto adesso è persino di chi suona. Poche pochissime note, alcune gravi e l'eco come di un tuono lontano. E' la fine o l'inizio che vengono resi tangibili. La musica è un tutto che non ha bisogno di scandire le singole parti. non ha né capo, né coda, come la vita e la morte che sono una.
Al trentacinquesimo minuto Lenoci e Cusa tornano al presente. Narrano di emozioni quotidiane. E' un passaggio molto bello, godibile, emotivo che consente di abbracciare la parte più semplice e immediata delle nostre sensibilità. A volte mi distraggo, penso ad altro mentre ascolto. L'operazione di Lenoci sembrava essere andata bene, poi non ho capito cosa non ha quadrato. Ho sempre immaginato i jazzisti come i personaggi descritti dall'iconografia americana, schiavi degli eccessi. Gli individui che conosco sono tutti dei salutisti, gentili molto più dei vecchi che fanno la spesa il sabato alla Coop. Niente che lasciasse presagire il peggio. Niente. La morte è un fulmine. A volte vorrei essere il mio gatto Berlinguer. Lui non sa che deve perire. Teme il pericolo, non si getterebbe mai dal quarto piano, però non sa che i suoi giorni avranno fine. Forse proprio per questo i gatti non sono musicisti.
Giunto al quarantaseiesimo minuto mi perdo in un furioso percorrere di scale acute. Francesco lascia che Lenoci si arrampichi come vuole. Lo sorveglia paterno dal basso, gli protegge le spalle come Butch Cassidy a Billy the Kid nel film di Roy Hill. Lo sanno che è un gioco a perdere, che finirà male e l'esercito messicano avrà la meglio, ma chi se ne frega? E' questa la forza del tutto, dell'incessante fluire. Poi un suono dolce, più calmo, spegne l'ansia nella quiete, come l'acqua il fuoco. Si annida nelle sonagliere di Cusa, nel gioco sottile dei piatti cristallini. Il rullante offre gli ultimi strappi e con esso il piano percosso. Odo il suono lontano di una voce, forse una segreteria, una radio malfunzionante. Mi ricorda l'epilogo di un film di Jaco Van Dormael, "Toto Le héros", dove il protagonista, percorrendo la sua vita, sbagliata o giusta che fosse, giunge alla sua stessa dipartita e l'ultima frase che pronuncia è: "Tutto qui?"
L'archetipo alla fine o lo si accetta o lo si respinge, come afferma Marco Guzzi, Si giunge al Cristo o all'Anticristo di Nietzsche, ma il jazz risiede ancora più in alto di ciò, perché è uno, è sentire, è tutto, come la vita e come la morte, è arte. Credo, dunque, in Wet Cats, credo in un'unica suite, in un unico viaggio. Sì, credo nello splendore del "tutto qui" interamente reso da Francesco Cusa e Gianni Lenoci e credo nella mia inesauribile ignoranza che non potendo descrivere Wet Cats ha avuto almeno la furbizia di provare a renderlo adattando l'arte del recensire alla composizione istantanea, al flusso di coscienza. Il mio è un maldestro, onesto tentativo del quale chiedo perdono, ma quello inciso dai due musicisti è bellezza che resta offerta per sempre alla nostra sensibilità e interpretazione e ognuno può sentirci ciò che vuole, ciò che è.